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Introduzione
Immagina di andare a visitare La Paz, in Bolivia, città che si trova a circa 3600 m sul livello del mare e di acquistare una bottiglietta d’acqua. La bevi, poi la chiudi e la butti nello zaino, dimenticandotene fino a casa. Al momento di svuotare i bagagli la trovi accartocciata.
Potresti pensare che magari, sotto il peso di qualche libro e degli altri oggetti personali si sia schiacciata nel viaggio, eppure non sembra bucata ed il tappo è ben chiuso… Cos’è successo?
Quello che hai sotto gli occhi è la dimostrazione di come cambia la pressione dell’aria in base all’altitudine a cui ti trovi, ma oggi non voglio parlarti di questo, non direttamente almeno, vorrei invece parlarti dell’effetto che ha sul nostro corpo e del perché oltre una certa altitudine la vita umana sia sostanzialmente impossibile se non per ristrettissimi intervalli di tempo, tanto da meritarsi il suggestivo appellativo di zona della morte.

Monte K2 (Shutterstock/Alexandree)
Cos’è la zona della morte
Questa zona della morte inizia all’incirca ai 7600 metri, anche se ovviamente non devi immaginarti che a 7599 m tu possa stare benissimo ed al passo successivo crollerai stramazzato a terra: si tratta di un limite convenzionale, con ampissime variabilità anche molto soggettive, ma soprattutto di un insieme di cambiamenti graduali che peggiorando con la salita.
Ma perché?
Permettimi un altro esempio: se abiti sul mare, oltre a tutta la mia invidia, puoi mettere a bollire l’acqua per la pasta e vedrai le bolle al raggiungimento dei classici 100°. Se invece abiti a Sestriere, in Piemonte, il comune più alto d’Italia con i suoi 2.035 metri sul livello del mare, vedrai bollire l’acqua già verso i 93-94°, se decidessi per una spaghettata a La Paz, 3600 metri, a 88° e così via.
Tutti noi viviamo sotto un immenso oceano d’aria, molto profondo, che si chiama atmosfera. La pressione che l’aria atmosferica esercita sulla superficie dell’acqua nella pentola diminuisce all’aumentare dell’altitudine, quindi lo sforzo che deve fare l’acqua per bollire è via via minore.
Lo stesso vale per quella sopportata dal nostro organismo.
Chiedo fin d’ora scusa ai fisici all’ascolto, ma puoi semplicemente immaginarlo come la naturale conseguenza del fatto che salendo avrai sempre meno aria sopra di te, come se dalle profondità marine ti spostassi verso la superficie: quindi meno aria sopra la tua testa, meno peso, ed ovviamente anche la pressione esercitata sarà inferiore. È per questa ragione che gli aerei che volano ad alta quota sono “pressurizzati”, ma per inciso questa è anche la ragione per cui la bottiglietta vuota di liquidi, ma piena di aria di La Paz, a casa si è schiacciata: la pressione esercitata esternamente dall’aria, una volta a casa, era maggiore di quella di La Paz racchiusa dalla bottiglietta, che è così stata schiacciata.
C’è però un problema più grosso della bottiglietta ormai inutilizzabile: a livello del mare il peso dell’atmosfera che ci sovrasta comprime l’aria intorno a noi, rendendola più densa di ossigeno. Man mano che si sale, su un palazzo, su una collina, sul monte locale fino alle cime più alte, l’aria diventa meno compressa è quindi, pur essendo la percentuale di ossigeno identica alle altitudini inferiori, la quantità realmente disponibile per la nostra respirazione non più è adeguata.
Come ti ho detto prima non è il singolo passo fatto a cavallo dei 7600 m a determinare il cambiamento, ma ogni passo che fai verso l’alto ti espone ad una piccola e di per sé impercettibile riduzione dell’ossigeno disponibile. Come sai per il corpo umano un costante rifornimento di ossigeno è assolutamente indispensabile, non per niente quando andiamo sott’acqua, o disponiamo di bombole, o abbiamo un’autonomia piuttosto limitata, soprattutto se non siamo allenati. Salendo in montagna è più o meno la stessa cosa. Più si sale e più difficoltà troviamo a saturare la nostra emoglobina di ossigeno, ovvero riuscire a mandarne in giro quantità sufficienti alle necessità dell’organismo è sempre più ostico. Prova ad immaginare di correre a lungo potendo respirare solo attraverso una cannuccia, ecco, quello che si prova respirando in alta montagna è qualcosa di molto simile.
Un primo importante scoglio lo si raggiunge più o meno a 2100 m, è da qui in poi che il nostro corpo fatica ad adattarsi, ad acclimatarsi.
Acclimatazione

Campo base sul monte Everest (Shutterstock/Vixit)
Acclimatamento, questa è la parola chiave per chi pratica alpinismo a quote particolarmente alte. Non servo di certo io a farti scoprire quanto l’uomo sia in grado di adattarsi alle situazioni più disparate, banalmente pensa alle popolazioni artiche e a quelle che vivono nelle grandi pianure africane, è assolutamente incredibile quanto l’organismo umano sia in grado di adattarsi a situazioni non solo estreme, ma anche diametralmente opposte.
L’acclimatamento è una forma di adattamento che un organismo attua in risposta a variazioni dell’ambiente, ad esempio altitudine e temperatura, ed è proprio quello che fanno gli alpinisti quando perseguono obiettivi sopra i 4000 m. L’idea è quella di iniziare a fare avanti e indietro tra i campi di appoggio piazzati a differenti quote. Potresti aver visto il bellissimo film Everest, in cui si racconta la tragedia del 1996, se non l’hai fatto ti consiglio di recuperarlo o, meglio ancora, leggerne il libro da cui è stato tratto. Nell’opera si evidenzia bene questa strategia, qualcosa del tipo dal campo base si raggiunge il campo numero due e poi si ridiscende al campo uno dove si pernotta una o più notti; il giorno seguente si sale al campo tre per poi ridiscendere e pernottare al campo due e così via, più volte, gradualmente, fino al giorno del tentativo di raggiungere la vetta. La regola generale è, semplificando un po’, sali in alto, dormi un po’ più in basso.
Cosa succede al nostro corpo con questi trasferimenti mirati? Un sacco di cose interessanti, dimostrazione di come l’organismo faccia il possibile per adattarsi alle mutate condizioni ambientali:
- produciamo più globuli rossi, per raccogliere quel poco ossigeno che c’è in modo più efficiente ed efficace;
- modifichiamo il sistema ormonale, per correggere ad esempio la gestione dei liquidi;
- aumentiamo la frequenza dei battiti cardiaci, in modo da garantire una distribuzione del sangue più vivace, che faccia fronte alla scarsità di ossigeno,
- ma si verificano anche modifiche ai tessuti muscolari ed altro ancora.
Se abiti a Rimini e vai a scalare l’Everest sarà un adattamento temporaneo, a breve termine, una volta tornato a casa nel giro di qualche settimana o mese, a seconda dei casi, si osserverà una regressione dei cambiamenti intervenuti.
Se nasci e vivi a Sestriere svilupperai probabilmente cambiamenti a lungo termine, ma c’è un altro caso interessante che merita di essere ricordato: gli Sherpa, un popolo originario delle montagne del Nepal con una popolazione complessiva di meno di 200000 individui, sono uno straordinario esempio di adattamento congenito alle grandi altezze, frutto di una forte pressione ambientale che ne ha determinato un’evoluzione genetica specificatamente utile alla vita in alta quota:
- produzione più efficiente di globuli rossi,
- modifiche al metabolismo energetico,
- polmoni particolarmente voluminosi,
- assenza di iperventilazione
- ma anche un elevato peso alla nascita,
- una carnagione più scura,
- e probabilmente altro ancora.
Noi oggi purtroppo siamo abituati ad usare il termine Sherpa come sinonimo di portatori, ma in realtà si tratta di un popolo con caratteristiche fisiche e caratteriali davvero straordinarie, che ne hanno poi ovviamente favorito la presenza quasi costante nelle spedizioni himalayane.
I pericoli
Ma torniamo a noi. Cosa succede al nostro corpo salendo troppo o troppo velocemente?
Il tuo corpo deve adattarsi all’aria più rarefatta e alla mancanza di ossigeno e per fare questo gli adattamenti immediati che si attivano sono essenzialmente due:
- inizi a respirare più velocemente e più profondamente per massimizzare la quantità di ossigeno che può entrare nel sangue dai polmoni,
- il tuo cuore pomperà più sangue per garantire un adeguato apporto di ossigeno ai muscoli, ma soprattutto al cervello.
Quando succede questo? È molto soggettivo, tendenzialmente sono circa 2000-2500 m sul livello del mare che possono iniziare a dare fastidio, ma qualcuno patisce già i 1500 m, qualcuno sopporta facilmente anche altitudini superiori, ma come abbiamo detto molto dipende anche dalla velocità di ascesa e da altri fattori.
Il cosiddetto mal di montagna, segno che qualcosa non sta funzionando perfettamente, il modo per l’organismo di dire “ehi, cosa caspita stai combinando? Rallenta un po’ e fammi capire meglio cosa posso fare prima di proseguire se proprio devi” esordisce in genere con il mal di testa, a cui possono associarsi:
- anoressia (perdita di appetito),
- nausea o vomito,
- debolezza e stanchezza,
- vertigini o senso di stordimento,
- insonnia,
- irritabilità.
Ecco, il problema è che anche per gli alpinisti occidentali più allenati, alle quote più estreme sulla Terra non importa quanto acclimatamento tu faccia, almeno parte di questi disturbi li patirai comunque.
Ma adesso dimmi, quando si hanno problemi economici, quando la disponibilità di una risorsa importante è scarsa o addirittura insufficiente, cosa fai? Tagli prima le spese inutili, poi inizi tagliare anche quelle necessarie ma in qualche modo sacrificabili, per riuscire a continuare a garantirti la sopravvivenza a qualunque costo.
La stessa cosa la fa il nostro corpo, inizia a tagliare alcune spese: la perdita di appetito, la nausea, il vomito sono segnali che le risorse destinate all’apparato digerente sono state tagliate, è ad esempio molto comune che i grandi scalatori scendano dalle spedizioni sofferenti di una perdita di peso di diversi chili.
Quando non ci sono abbastanza energie per il cervello ecco che compaiono irritabilità e vertigini, per non parlare dei muscoli, ed ecco spiegati il senso di stanchezza, debolezza e facile affaticamento.
Il problema per chi scala è tuttavia che si tratta di fattori che, sommati, rendono ancora più complicata l’ascesa:
- più si sale e più ogni passo diventa faticoso,
- più si sale e più diventa difficile mantenere la lucidità necessaria a valutare non solo come superare passaggi particolarmente tecnici, ma anche ad esempio a decidere quando rinunciare all’obiettivo sia auspicabile in presenza di imprevisti come può essere un cambiamento del tempo od un ritardo sulla tabella di marcia.
Tutto questo a temperature estreme, non dimentichiamolo, che richiedono grossi sforzi energetici all’organismo per prevenire l’ipotermia, organismo che tuttavia da giorni non riesce più né a dormire né ad alimentarsi adeguatamente.
La situazione tuttavia può ulteriormente peggiorare, fino a precipitare. I disturbi più gravi e pericolosi sono infatti legati al possibile accumulo di fluidi nei tessuti corporei, il cosiddetto edema, che può verificarsi a livello di polmoni e/o cervello, con conseguenze potenzialmente fatali.
Il perché questo succeda non è ancora chiarissimo né tanto meno facilmente prevedibile nei modi e nei tempi, ma quello che è drammaticamente chiaro sono gli effetti devastanti sull’organismo:
- L’edema polmonare da alta quota si manifesta non solo con un peggioramento dei sintomi visti prima, ma con una palese difficoltà respiratoria, tosse secca, rantoli.
- L’edema cerebrale, meno frequente ma ancora più temibile, comprende tra l’altro disturbi della vista, perdita di coordinazione, confusione, allucinazioni, riflessi rallentati eventualmente anche paralisi fino al coma e poi alla morte.
In entrambi i casi una rapida discesa può fare la differenza, eventualmente aiutata da un’iniezione di un farmaco cortisonico, il desametasone. Ovviamente queste situazioni si verificano tipicamente in ambienti assolutamente ostili, dove spesso nemmeno l’elisoccorso può intervenire proprio a causa della rarefazione dell’aria, e dove la già citata perdita di lucidità può essere causa di rischi solo teoricamente evitabili, come dimenticarsi di allacciare un moschettone, prendere una direzione sbagliata o non vedere un ostacolo.
Cosa succede nella zona della morte

Shutterstock/Saulius Damulevicius
Ora che abbiamo acquisito ulteriori elementi, torniamo ancora a parlare di zona della morte, per dire che a questa altitudine l’organismo umano NON è più in grado di adattarsi, per quanto lentamente o progressivamente venga raggiunta.
È ormai piuttosto noto di come spedizioni ad alta quota siano di per sé addirittura causa di lesioni potenzialmente permanenti al cervello, da una certa altitudine in poi le cellule cerebrali iniziano semplicemente a morire, sottoposte ad una pressione ambientale intollerabile.
Benché sia possibile aumentare leggermente il margine di tempo disponibile a limitare i danni mediante il ricorso a bombole di ossigeno, questo non è comunque sufficiente, e ne è triste testimonianza il lungo elenco di morti che si accumulano senza sosta sulle cime più alte del mondo. Per quanto migliorino le conoscenze mediche, l’attrezzatura e la tecnica di scalata, i numeri sono ancora drammatici. Morti che sono senza dubbio in alcuni casi conseguenza di eventi imprevedibili come una valanga, ma che in molti casi rappresentano invece il risultato che hanno gli effetti dell’ambiente sulle funzioni vitali, finanche indirettamente in termini di decisioni sbagliate prese sotto stress o indebolimento fisico.
Fammi sapere cosa ne pensi nei commenti, ma ti confesso che io, nonostante tutto ed anzi forse a maggior ragione, rimango comunque terribilmente affascinato dalle imprese straordinarie di uomini e donne che non riescono fare a meno di cedere al richiamo della Natura, della sfida contro sé stessi prima ancora che contro l’ambiente, del desiderio di spostare anche solo un pochino più in là l’asticella della storia umana.
Fonti e bibliografia
Autore
Dr. Roberto Gindro
laureato in Farmacia, PhD.Laurea in Farmacia con lode, PhD in Scienza delle sostanze bioattive.
Fondatore del sito, si occupa ad oggi della supervisione editoriale e scientifica.