Fattore di Leiden, sintomi, cura e gravidanza

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Introduzione

Il fattore V di Leiden è la causa più comune di trombofilia ereditaria, un gruppo di malattie congenite caratterizzate da una marcata tendenza del sangue a formare trombi anomali, ossia di coaguli che

  • si producono velocemente,
  • in grosse quantità e
  • che non si dissolvono normalmente.

Il fattore V di Leiden, in particolare, è una variante del fattore V umano, una proteina prodotta dal fegato e coinvolta nella cascata della coagulazione del sangue, ove svolge attività pro-coagulante.

Alcune persone possiedono un fattore V mutato, detto di Leiden dal nome della città di Leida nei Paesi Bassi in cui venne identificato per la prima volta dal gruppo di ricerca guidato dal Prof. Bertina, venticinque anni fa. Questi ricercatori notarono che in un certo numero di persone il fattore V della coagulazione presentava una mutazione in grado di renderlo inattaccabile da parte della proteina C e di conseguenza aveva una maggiore capacità coagulativa.

L’ipercoagulabilità del sangue presente nei soggetti che presentano il fattore V di Leiden rende queste persone più suscettibili a possibili eventi trombotici.

Niente paura però: con un’attenta sorveglianza medica e con la somministrazione di terapie adeguate, la situazione può essere efficacemente tenuta sotto controllo.

La cascata della coagulazione

Quando ci feriamo, nel nostro corpo si scatena una serie di processi fisiologici scanditi secondo una successione predefinita, ordinata e rapida, che termina con la formazione di un coagulo (o trombo, le due parole sono sinonimi).

Questi processi fanno parte della cosiddetta emostasi, chiamata anche cascata della coagulazione per la modalità particolare in cui si verifica: ogni processo è attivato da quello precedente ed attiva quello successivo.

Il primo attore della cascata coagulativa è il fattore XII (fattore di von Willebrand) che si dispone lungo la ferita e consente l’adesione delle piastrine e delle cellule della matrice extracellulare. Le piastrine vanno a tappare la ferita, cambiando forma da discoidale a piatta, ed inoltre liberano sostanze che richiamano sul sito della ferita altre piastrine.

  1. Il fattore XII attiva il fattore XI,
  2. che insieme al fattore VIII attivano il fattore X.

Sembra uno scioglilingua, in realtà rappresenta la via intrinseca della cascata coagulativa.

All’attivazione del fattore X contribuiscono anche i fattori che fanno parte della via estrinseca della cascata della coagulazione, ossia

  1. il fattore III rilasciato dalle cellule endoteliali danneggiate,
  2. che attiva il fattore VII,
  3. che attiva il fattore il fattore X.

L’attivazione del fattore X è un punto cruciale della cascata coagulativa (via comune): questo trasforma la protrombina (fattore II) in trombina, con l’aiuto del fattore V (il fattore oggetto del presente articolo).

La trombina attiva una molecola detta fibrinogeno (fattore I) e la trasforma in fibrina, con l’aiuto del fattore XIII.

Il fibrinogeno è una proteina costituita da due unità formate ciascuna da 3 catene, chiamate con lettere greche alfa, beta e gamma. Le estremità delle catene alfa e beta sono negative per cui respingono le altre molecole di fibrina che rimangono disciolte nel sangue.

La trombina agisce attivando queste porzioni alfa e beta del fibrinogeno, per cui improvvisamente le molecole di fibrina cominciano a polimerizzare, cioè ad unirsi in una massa che inizialmente prende il nome di coagulo morbido. Il fattore XIII stabilizza tale coagulo. Sul coagulo di fibrina si attaccano anche le piastrine, attraverso propaggini dette pseudopodi.

Una volta riparata la ferita ed arrestata l’emorragia, il coagulo viene dissolto grazie all’azione della plasmina.

Grafico che riporta la cascata della coagulazione

Di Italian translation by User:Gia.cossa of Image:Coagulation full.svg by Joe D – Italian translation of Image:Coagulation full.svg by Joe D, CC BY-SA 3.0, Collegamento

Genetica

I soggetti con Fattore V di Leiden sono persone nate con una mutazione genetica di tipo autosomico dominante a carico del cromosoma 1, ciò significa che chi è portatore di questa mutazione ha una probabilità su due di trasmettere tale predisposizione ai figli.

Ma in cosa consiste?

Le istruzioni per produrre ciascuna proteina utilizzata dal nostro organismo si trovano nel DNA, la mutazione di Leiden si verifica quando il gene codificante per il Fattore V presenta in posizione 506 una mutazione puntiforme che determina la sostituzione dell’amminoacido arginina con l’amminoacido glutammina. Tale sostituzione si verifica laddove normalmente agisce la proteina C, proteina preposta alla degradazione del Fattore V che, inibito, interrompe la produzione di fibrina. Nei soggetti con Fattore V mutato, la capacità inibitoria della proteina C non è attiva e di conseguenza si produce un eccesso di fibrina ed un coagulo più consistente.

Si tratta di una mutazione a dominanza incompleta, ossia con differente grado di gravità: alcuni pazienti possono presentare sintomi anche severi ed altri essere del tutto asintomatici.

È possibile ereditare

  • solo una copia del gene difettoso (soggetti eterozigoti) con lieve rischio di ipercoagulabilità del sangue e disturbi correlati,
  • oppure due copie (soggetti omozigoti) ossia una per genitore, con un maggior rischio di formare coaguli nel sangue.

Diffusione

Circa il 3-4 % della popolazione di tutto il mondo presenta il fattore V di Leiden.

In Italia i portatori eterozigoti per il fattore V sono pari al 2-3% della popolazione, mentre la frequenza dei soggetti omozigotici a tale mutazione è molto bassa, intorno allo 0,02%.

Il rischio di sviluppare una trombosi venosa è rispetto alla popolazione generale di

  • 5-10 volte nei soggetti eterozigoti
  • ben più alta, intorno a 50-100 volte, nei soggetti omozigoti

Può colpire indifferentemente uomini e donne.

Le donne sembrano tuttavia essere maggiormente predisposte alla formazione di coaguli di sangue, specie in determinate condizioni, quali gravidanza o in seguito ad un uso prolungato di terapie a base di ormoni estrogeni.

Fattori di rischio per trombosi

La maggior parte dei soggetti con fattore V mutato è eterozigote, ossia presenta una sola copia del gene mutato ereditato da un genitore, e manifesta raramente problemi clinici rilevanti e trombosi.

La presenza di fattori di rischio predisponenti però può, nel caso di soggetti predisposti, innalzare la probabilità che si verifichi un evento trombotico. Tra i principali fattori di rischio, ci sono:

  • età,
  • abitudine al fumo di sigaretta,
  • operazioni chirurgiche recenti,
  • politraumi,
  • immobilizzazione al letto, ad esempio per interventi chirurgici, fasciature o gessi, malattie croniche,
  • uso prolungato di contraccettivi orali (pillola) o terapie ormonali a base di estrogeni per la cura dei sintomi legati alla menopausa.
  • lunghi viaggi, ad esempio voli aerei superiori alle 8 ore,
  • sovrappeso,
  • gravidanza e puerperio (periodo post gravidanza),
  • malattie cardiovascolari,
  • malattie autoimmuni (come il LES),
  • diabete mellito,
  • tumori.

Sintomi e complicanze

La presenza del fattore V di Leiden si può manifestare con diversi disturbi clinici nel caso in cui si verifichino episodi di trombosi, sebbene la maggior parte dei soggetti con il gene mutato possano restare asintomatici per tutta la vita e ignari di possedere tale mutazione.

I sintomi sono legati alla zona del corpo in cui si formano i coaguli anomali. Questi limitano od ostruiscono la normale circolazione sanguigna, arrecando un danno più o meno grave a carico degli organi che si ritrovano in carenza di ossigeno, sangue ed altre sostanze nutritive. Le vene sono maggiormente interessate ai trombi rispetto alle arterie.

I sintomi comprendono a seconda dei casi:

Meccanismo di trombosi e formazione di emboli

iStock.com/solar22

Fattore V di Leiden e Gravidanza

Le donne portatrici della mutazione del fattore V corrono un maggior rischio di sviluppare una trombosi in gravidanza o nel periodo post partum; si stima che circa il 50% dei casi di eventi trombotici gravidici siano dovuti ad una trombofilia ereditaria.

Ricordiamo che durante la gravidanza, già in condizioni fisiologiche, si instaura una condizione di ipercoagulabilità del sangue legata a fattori quali:

  • aumento di tutti i fattori della coagulazione,
  • riduzione di alcuni fattori anti-coagulanti,
  • produzione di tromboplastine, sostanze che attivano la cascata della coagulazione necessaria a tamponare le grosse perdite di sangue che si verificano durante il parto.

I rischi cui va incontro una donna in gravidanza, portatrice della mutazione, sono:

Le donne con fattore V di Leiden noto deve essere quindi monitorate durante tutto il periodo della gravidanza. Sono sufficienti i normali esami del sangue prescritti dal ginecologo. Il fattore V di Leiden, dunque, con il giusto monitoraggio non è più ad oggi un ostacolo per la maternità.

Ci sono casi in cui è richiesta una profilassi con eparina a basso peso molecolare:

  • pazienti omozigoti per la mutazione,
  • osservazione di crescita fetale ridotta,
  • pazienti che hanno già avuto episodi di trombosi in precedenza.

L’eparina a basso peso molecolare viene somministrata con iniezioni che si effettuano nella piega addominale sottocute (pancia) e:

  • non aumenta il rischio di emorragie durante il parto,
  • non provoca danni al feto, dato che non passa attraverso la placenta,
  • non passa nel latte materno.

L’eparina va somministrata in ogni caso nella pazienti (anche eterozigoti) durante il puerperio per 6 settimane.

Diagnosi

Il medico di famiglia può sospettare la presenza del fattore V di Leiden nel caso di una donna con storia di ripetuti aborti spontanei, di un paziente con più di un episodio di trombosi oppure se racconta di altri casi in famiglia di malattie trombotiche note.

Il paziente può venire sottoposto ai test di screening per le trombofilie ereditarie, che sono raccomandati nel caso di:

  • eventi trombotici ripetuti o che si sviluppano in sedi inusuali, ossia a carico delle vene del fegato, milza o cervello,
  • episodio di tromboembolismo venoso in persone giovani, prima dei 45 anni d’età, senza una causa apparente,
  • aborti spontanei ripetuti,
  • trombosi neonatale,
  • trombosi arteriosa,
  • presenza di più parenti con storia di malattie trombotiche.

Per le indagini di screening il soggetto viene sottoposto ad un prelievo di sangue, che valuta:

  • emocromo completo,
  • parametri della coagulazione: PT, PTT e fibrinogeno,
  • test di resistenza alla proteina C attivata,
  • analisi genetiche.

Il test di resistenza alla proteina C attivata si effettua prelevando un campione di sangue venoso dal braccio e non richiede nessuna preparazione particolare del paziente. Se è presente la mutazione del fattore V, si osserverà una resistenza di questo fattore verso la proteina C che normalmente si attiva limitandone l’attività coagulante.

I test genetici consentono di rilevare nel DNA delle cellule una mutazione a carico del fattore V di uno o entrambi gli alleli (Mutazione G1691A del Fattore V). Con i test genetici è possibile valutare anche una mutazione della PT20210, enzima responsabile dell’attivazione della protrombina in trombina.

Il fattore V di Leiden è la causa più comune di trombofilia ereditaria, ma non è l’unica. Esistono altri esami di sangue che possono essere eseguiti per la valutazione diagnostica della trombofilia come:

  • lupus anticoagulant,
  • proteina C e Proteina S,
  • antitrombina,
  • mutazioni MTHFR,
  • omocisteina,
  • mutazione R2 del Fattore V (che è differente dalla mutazione del fattore V di Leiden, ma che può associarsi a quest’ultima aumentando il rischio di trombosi venosa).

Terapia

La maggior parte dei pazienti affetti da trombofilia non necessità di alcuna terapia, che deve invece essere prescritta nel caso di episodi trombotici o di presenza di importanti fattori di rischio, come ad esempio:

  • età,
  • peso,
  • stile di vita
  • e storia familiare.

La terapia si basa sull’assunzione di farmaci in grado di fluidificare il sangue, detti anticoagulanti, somministrati in

  • compresse,
  • infusioni endovenose
  • o in fiale sottocute.

Tra gli anticoagulanti ricordiamo il warfarin e l’eparina. In alcuni casi può essere utilizzata l’aspirina, in monoterapia.

Il warfarin (nome commerciale Coumadin) viene comunemente somministrato per via orale ed agisce:

  • da antagonista della vitamina K,
  • inibendo la formazione attiva di quei fattori della coagulazione vitamina K e calcio dipendenti, II, VII, IX e X nonché dei fattori di regolazione proteica C, proteina S e proteina Z.

L’eparina viene comunemente somministrata con iniezioni sottocute o per via endovenosa. È disponibile in versione frazionata, con il nome di eparina a basso peso molecolare. Agisce legandosi all’antitrombina III e quest’ultima, attivata dall’unione con l’eparina, inibisce l’attività della trombina, del fattore X e di altre sostanze coinvolte nella coagulazione del sangue.

L’effetto collaterale più comune nei pazienti in terapia anticoagulante orale è l’emorragia, che si verifica quando c’è un’eccessiva fluidificazione del sangue. Un’ emorragia può presentarsi clinicamente in vari modi:

  • fuoriuscita di sangue dalle gengive e dal naso, senza cause evidenti,
  • ciclo mestruale più abbondante del solito,
  • improvvisi disturbi della vista,
  • feci di colore rosso vivo o nere,
  • vomito di colore rosso vivo o color caffè.

Tra gli esami del sangue utili a controllare come coagula il sangue si richiedono i seguenti parametri:

  • PT, che misura l’attività dei fattori della coagulazione I, II, V, VII e X,
  • aPTT, che misura la via intrinseca della coagulazione,
  • INR (International Normalized Ratio) è una stima del PT “pesato” (PT ratio) in ragione di un coefficiente di sensibilità denominato ISI, ed assicura una standardizzazione dei risultati di laboratorio indipendentemente dal laboratorio di analisi e dai reagenti utilizzati.

In corso di trattamento con anticoagulanti orali è essenziale controllare periodicamente l’INR, per poter eventualmente modificare il dosaggio somministrato e mantenere i valori di INR nel range terapeutico. La British Society for Haematology consiglia dei valori ottimali di INR da raggiungere nelle diverse situazioni:

  • per la profilassi della trombosi venosa l’INR dovrebbe essere di 2-2,5,
  • per il trattamento della trombosi venosa o dell’embolia polmonare, l’INR dovrebbe essere di 2,5,
  • per la profilassi di trombosi venose o embolie polmonari ricorrenti e in caso di presenza di valvole cardiache meccaniche l’INR dovrebbe essere di 3,5.

In un paziente che non assuma warfarin il risultato è in genere compreso tra 0.8 e 1.2.

In generale

  • un livello di INR basso indica un’alta probabilità di sviluppare un coagulo,
  • un livello di INR alto indica un alto rischio di sanguinamento.

Il warfarin (ma non l’eparina) è potenzialmente teratogeno per cui non può essere somministrato in gravidanza, per il rischio di sviluppo di malformazioni fetali.

Per il trattamento delle trombosi o delle tromboembolie venose solitamente la terapia di combinazione con farmaci anticoagulanti è di breve durata, circa 3-12 mesi. Al termine della cura, sulla base della valutazione del rischio individuale, si stabilisce se è necessario proseguire con la terapia o meno. Solo per alcune persone può essere necessaria una terapia profilattica a vita.

Ricordiamo infine la disponibilità, da pochi anni, di nuovi anticoagulanti orali che, a differenza del warfarin, non richiedono periodici esami del sangue di controllo.

La mutazione del fattore V, se presente, non esser curata in senso stretto, cioè non scompare con una terapia medica perché fa parte del patrimonio genetico dell’individuo che la possiede fin dalla nascita.

È possibile però seguire dei comportamenti volti a limitare il rischio di trombosi come ad esempio l’astensione al fumo di sigaretta e la pratica di un buon esercizio fisico.

Fonti e bibliografia

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