Cibi ultraprocessati: cosa sono e perché è meglio evitarli

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Introduzione

Nei miei articoli t’invito spesso a limitare, o meglio ancora evitare, i cibi ultraprocessati… ma se non esiste nemmeno una definizione condivisa, perché dovremmo limitarne il consumo?

Perché fanno male? Ma soprattutto, faranno male davvero?

I cibi ultra-processati sono problematici di per sé, oppure il problema è semplicemente che prendono il posto di alimenti più sani?

In nutrizione la domanda che devi sempre imparare a farti è “rispetto a cosa?”.

Se ci fai caso siamo tutti portati ad associare il cibo naturale al concetto di sano e quello industriale al rischio, al pericolo, e tendenzialmente è anche un’euristica, ovvero una scorciatoia mentale, che in campo alimentare funziona ragionevolmente bene, ma se vogliamo acquisire una vera bussola che ci guidi in questa gara sui social a chi grida più forte la propria verità, è necessario allenare anche spirito critico e consapevolezza, chiedendoci sempre: perché?

Colgo allora l’occasione di un mini video pubblicato dal Prof. Fontana su questo tema per cercare di chiarire alcuni punti importanti.

Cosa e quali sono i cibi ultraprocessati?

Definire i cibi ultra-processati è, paradossalmente, il compito più arduo di questo articolo, perché non esiste una definizione univoca e condivisa; Wikipedia li traduce come cibi ultralavorati e li definisce come

prodotti alimentari e bevande che abbiano subito specifici tipi di trasformazione, di solito da aziende multinazionali molto grandi dette ‘Big Food’.

Questi alimenti sono progettati per essere “convenienti, consumati in movimento, iperpalatabili e attraenti per i consumatori e, soprattutto, [per rappresentare] il segmento più redditizio del portafoglio delle aziende Big Food a causa degli ingredienti a basso costo di questi alimenti”.

Ragazza che mangia ciambelle e guarda in camera

Shutterstock/Dean Drobot

Posto che una definizione che tiri in ballo il suggestivo ma poco scientifico termine Big Food non mi piace troppo, abbiamo comunque capito che si tratta

  • intanto di prodotti industriali,
  • frutto di processi di preparazione più o meno complessi,
  • invariabilmente molto appetibili,
  • ma poco costosi eppure particolarmente redditizi.

Hanno cioè un grande margine di guadagno e non solo perché venduti in grande quantità, ma perché prodotti con ingredienti a basso costo e purtroppo quando si parla di alimenti un costo significativamente basso suggerisce anche una scarsa qualità della materia prima; analizzando la composizione in etichetta ci si trova molto spesso di fronte a una lista di nomi  incomprensibili, che annovera additivi di ogni genere, come

  • conservanti perché devono durare a lungo a scaffale,
  • dolcificanti perché nella stressante vita quotidiana un po’ di dolce è semplicemente una carezza per l’anima,
  • aromi ed esaltatori sensoriali perché devono spararti una scarica di dopamina ad ogni morso,
  • coloranti perché vuoi mettere un bel colore vivace e allegro rispetto a una tonalità più spenta?
  • coadiuvanti tecnologici per ottenere proprio quella consistenza, proprio quella scioglievolezza, proprio quella sensazione di piacere sulla lingua,
  • ma anche vitamine e sali minerali, per poter vantarne la presenza sulla confezione e ridurre così i tuoi sensi di colpa.

Sai cosa non c’è praticamente mai? Un cibo naturale nella sua interezza… Le proteine di pisello non sono piselli, la farina bianca doppio zero non è grano integrale, il colorante rosso di barbabietola (E162) non è barbabietola… tanto che qualcuno sostiene che “la maggior parte degli alimenti ultratrasformati NON siano nemmeno cibo, bensì sostanze commestibili prodotte industrialmente”.

Fanno male? Perché?

Ma perché sono un problema queste formulazioni? Non potrebbero essere semplicemente innocue? D’altra parte sono tutte sostanze verificate e permesse dall’attuale normativa… forse sono solo un giusto compromesso, non fanno male e magari, come nel caso dei conservanti, sono anche utili. Pensiamo ai nitriti e ai nitrati dei salumi: è vero che sono un pochino cancerogeni, ma ci proteggono dal sicuramente più pericoloso botulino, no?

Sì, ma non dimentichiamo che tra un minimo aumento del rischio di tumore e il rischio di botulino c’è anche un’altra scelta, evitare entrambi i rischi, rinunciando al salame per una fettina di lonza che cuoci alla piastra… Se fosse allevata dal tuo vicino di casa che li alleva ancora in modo tradizionale meglio ancora, ma se ti preoccupasse il fatto che la carne rossa è cancerogena di per sé potresti optare per una coscia di pollo, magari senza pelle per ridurre l’impatto suo colesterolo, oppure passare a una bella ventresca di tonno, la parte più buona, così da beneficiare di un’esplosione di omega-3. Se poi ti piacesse consumarlo spesso… beh, forme meglio alici e sardine, che contengono meno mercurio dei pesci di grossa taglia. Se poi volessi impattare meno a livello ambientale ci sono ovviamente i legumi, ma non voglio divagare…

Io so cosa stai pensando adesso… ecchecavolo, ma allora se non si può più mangiare nulla tanto vale fregarsene e mangiare salame a volontà… E invece no, perché i cibi che ti ho presentano NON sono affatto tutti equivalenti in quanto a tipologia e severità del rischio, anzi, te li ho presentati in un ordine ben preciso, che rappresenta a grandi linee la frequenza con cui dovresti mangiarli in un mondo ideale.

Il salame da cui siamo partiti ha senso consumarlo solo se ti piace, nutrizionalmente parlando non ha altre giustificazioni (e non parlarmi di comodità, perché tra aprire una vaschetta di prosciutto a lunga conservazione, aprire una lattina di tonno o svitare il tappo di un vasetto di fagioli cotti non c’è alcuna differenza), ma affinché una dieta sia sostenibile è corretto, entro certi limiti, anche soddisfare il palato.

Le linee guida ci possono suggerire un buon compromesso tra gusto e prevenzione, ma poi ovviamente sta a te e te soltanto decidere cosa mettere effettivamente in tavola e come bilanciare queste due esigenze che sono talvolta in dolorosa antitesi: vegani e vegetariani decidono di tracciare questo confine in modo molto restrittivo per ragioni che, quasi sempre, si basano anche sull’amore per gli animali e sulla volontà di impattare il meno possibile sull’ambiente (obiettivi che sposo in pieno, anche se non sempre riesco ad essere coerente fino in fondo), ma se parliamo esclusivamente di salute non è necessario arrivare a tanto: decenni di letteratura scientifica dimostrano che la dieta mediterranea è una scelta eccellente e questa non preclude il consumo di carne, ma sicuramente prevede di limitare davvero all’occasionalità il cibo processato.

Non ti sto suggerendo di diventare un asceta, ti sto invitando a fare scelte più consapevoli, trovando quel giusto compromesso tra piacere e salute.

Un altro esempio, gli emulsionanti

Facciamo un altro esempio: prima ti accennavo di uno studio da poco ripreso dal Prof. Fontana: ebbene, senza tirarla troppo per le lunghe, quello che emerge è che assunzioni più elevate di emulsionanti di cellulosa totale, monogliceridi e digliceridi degli acidi grassi sono positivamente associati, chi più, chi meno, a infarti e ictus.

Perché?

Ad esempio si pensa che la carbossimetilcellulosa possa danneggiare la barriera intestinale, favorendo processi infiammatori, ma un elevato apporto di carbossimetilcellulosa è stato anche associato ad alterazioni nella composizione dei batteri intestinali e ad un elevato rischio di cancro al colon.

Allo stesso modo, i monogliceridi e i digliceridi degli acidi grassi hanno dimostrato effetti proinfiammatori, mentre la colite indotta da carragenina in studi sperimentali ha suggerito una potenziale diminuzione nella popolazione di specifici batteri intestinali che si pensa possano esercitare protettivi contro l’aterosclerosi.

Non c’è una vera pistola fumante, si parla di associazioni, correlazioni, spesso studi in vitro o sull’animale, ma in letteratura si stanno ormai accumulando studi che puntano tutti nella stessa direzione: restano da capire ancora molti meccanismi, ma il margine di dubbio sugli effetti è ormai sempre più sottile, addirittura nullo per alcune di queste sostanze.

Anche l’effettiva lavorazione del cibo potrebbe fare la differenza nella risposta del nostro organismo; un esempio classico è il consumo di arachidi come tali, che ha un impatto calorico ridotto rispetto al relativo olio a parità di dose.

Altri dubbi riguardano poi il possibile effetto sinergico: ad essere dannosi sono alcune di queste sostanze o la loro combinazione?

O, come dicevamo in apertura, forse il problema maggiore è ciò di cui prendono il posto: potrebbe cioè essere che il problema sia che una dieta ricca di questi alimenti è generalmente associata a uno stile di vita sedentario e a ridotto apporto di alimenti integrali e ortaggi.

Quanto si rischia?

Va beh, ma siamo onesti… ci sarà almeno uno studio che gli riconosce un qualche effetto positivo a qualcuna di queste sostanze? No.

Il mio consiglio è quindi lo stesso delle linee guida: cerca di limitarli il più possibile, fino a evitarli se possibile ma senza per questo farne un’ossessione: se tua nipote ha piacere di farti assaggiare una merendina ti assicuro che non morirai per quel boccone.

Interessante notare che esiste probabilmente un aumento lineare del rischio (ad esempio in riferimento a malattie cardiovascolari e più in generale anche per il rischio di morte per tutte le cause), un modo complesso per dire che più ne mangi e più rischi.

A questo proposito ti faccio però notare due aspetti importanti:

  • NON stiamo parlando dei cosiddetti veleni bianchi, o comunque non solo; è importante comprendere la differenza, perché come abbiamo spiegato nell’articolo dedicato lì l’effetto dipende dal contesto generale: se privi di zuccheri semplici e sodio un ciclista che corre il Giro d’Italia probabilmente non riuscirà a finirlo, sicuramente non tra i primi. Il latte stesso, pur tra mille controversie, lo si riconosce come una buona fonte di calcio e come fattore di protezione dal tumore al colon. Qui si parla di sostanze con obiettivi completamente diversi, che nella migliore delle ipotesi esercitano un effetto positivo sull’alimento, non sul tuo organismo (salvo eccezioni, come quando viene usata la vitamina C come correttore di acidità, ma spesso è comunque un’aggiunta necessaria a evitare guai peggiori sul cibo).
  • Per onestà intellettuale devo comunque dirti che quando si parla di associazione lineare tra quantità ed effetto, spesso significa che a basse dosi il rischio effettivo è, se magari non proprio nullo, almeno trascurabile o quasi. Un po’ come gli alcolici: NON esiste dose sicura, ma se fai il brindisi a capodanno con un bicchiere questo a fini pratici non cambia nulla sul tuo corpo. È tuttavia difficile dire DOVE inizi ad essere significativo il rischio, quindi la scelta di quanto consumarne e con che frequenza non può che essere personale, in considerazione di altri eventuali fattori di rischio (ad esempio se avessi familiari alcolisti o con altre dipendenze, casi di tumore al fegato o simili, … forse sarebbe preferibile evitarlo del tutto), della nostra sensibilità individuale nella percezione della salute, al piacere che traiamo dal consumo, …

Come li riconosciamo?

Abbiamo capito che non c’è una definizione univoca e che però sono almeno da limitare: la domanda sorge spontanea, come fare a riconoscerli? La BBC ci dà qualche consiglio:

  1. Quando leggi più di cinque ingredienti in etichetta inizia a farti qualche domanda, perché un lungo elenco di sostanze, soprattutto se comprende compoenenti utilizzati solo industrialmente e che non sapresti nemmeno dove comprare singolarmente, spesso è indicativo di cibi ultra-processati.
  2. Ingredienti completamente sconosciuti sono un indizio ancora più forte…
  3. Un elevato contenuto di grassi, zuccheri e sale è molto comune negli alimenti ultra-processati, perché è segno della ricerca mirata del bliss-point, quel magico equilibrio tra sapore e consistenza tipico di questi prodotti.
  4. Campagne di marketing aggressive.
  5. Paradossalmente anche frasi sulla confezione come “ad alto contenuto di fibre” o “fonte di proteine” dovrebbero indurti alla cautela.

Anche se la mia preferita rimane la regola di Pollan: La bisnonna non cucinava mai usando gomma di guar, carragenina, mono- e digliceridi, proteine vegetali idrolizzate, amido alimentare modificato, lecitina di soia o qualsiasi altro ingrediente presente negli alimenti trasformati, quindi se pensi che un certo cibo non sarebbe riconosciuto come tale dalla bis-nonna… meglio lasciarlo sullo scaffale.

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