Una conclusione inaspettata
Non esiste lo studio perfetto e non esiste lo studio definitivo, ma quello che ti presento oggi, conosciuto attraverso un bellissimo video di Layne Norton, riesce a fornire un importante tassello in più sulla comprensione dei benefici del digiuno intermittente quando si parla di perdita di peso.
Il digiuno intermittente è stato in grado di favorire il dimagrimento in numerosi studi, ma è capace di farlo indipendentemente dalla riduzione delle calorie?
In altre parole gli autori si sono chiesti se, a parità di calorie consumate, aderire a un modello di digiuno intermittente consenta di perdere più peso rispetto a un’alimentazione tradizionale che preveda quindi tutti i pasti classici.
Il punto chiave è quindi in quelle 4 parole: “a parità di calorie”.
La risposta che emerge è semplicemente un secco no, il digiuno intermittente, o forse più correttamente il time restricted eating impostato, NON ha offerto un vantaggio in termini di chili persi. E, forse ancora più interessante, nemmeno un miglioramento dei parametri metabolici relativi al glucosio, ovvero glicemia e resistenza all’insulina.
Secondo questi risultati, quindi, per perdere peso non conta quando mangi, conta solo quanto mangi.
Questa è la conclusione che ci portiamo a casa, ma vale la pena fare qualche considerazione in più.
Lo studio
Lo studio ha coinvolto 41 partecipanti, con un’età media di 59 anni, prevalentemente di sesso femminile (aspetto che potrebbe sollevare questioni sulla generalizzabilità dei risultati), e un peso medio di circa 95 kg.
I partecipanti sono stati suddivisi casualmente in due gruppi. A ciascun individuo sono stati forniti tutti i pasti giornalieri, da consumare integralmente e senza aggiunte. La composizione dei pasti era identica per tutti i partecipanti, costituendo il fulcro dello studio. Ogni partecipante assumeva dunque:
- La stessa quantità di calorie
- suddivise con un’identica proporzione di macronutrienti (proteine, grassi e carboidrati)
- e un uguale apporto di micronutrienti (vitamine, minerali e altri elementi).
La durata dello studio è stata di 12 settimane, con l’unica variabile differenziante tra i due gruppi rappresentata dal timing dei pasti:
- Al gruppo del digiuno intermittente è stato indicato di consumare tutti i pasti in una finestra di 10 ore, concentrando l’80% delle calorie prima delle 13:00, ossia tra colazione e pranzo. Questa scelta si basa su ipotesi cronobiologiche che suggeriscono una maggiore efficienza metabolica in questa fascia oraria, particolarmente per quanto riguarda l’assunzione di carboidrati.
- Il gruppo di controllo ha ricevuto istruzioni opposte, dovendo concentrare la maggior parte dell’apporto calorico dopo le 17:00, distribuendo comunque l’assunzione di cibo tra le 8:00 e la mezzanotte.
Come osservato dal Dr. Norton, i sostenitori più convinti del digiuno intermittente potrebbero obiettare sulla durata eccessiva della finestra di consumo (10 ore contro le 8 ore massime generalmente raccomandate), ma si può considerare comunque un’approssimazione accettabile.
I risultati dello studio, come anticipato, non hanno evidenziato differenze significative nella perdita di peso tra i due gruppi. Anzi, analizzando i dati grezzi, il gruppo di controllo ha registrato una perdita di peso leggermente superiore, sebbene non statisticamente rilevante.
Un (piccolo) colpo di scena
Un dato estremamente interessante è inoltre quello emerso dall’osservazione supplementare dell’attività fisica quotidiana; gli autori dello studio, facendo indossare degli accelerometri da polso ai partecipanti, hanno scoperto che il gruppo del digiuno intermittente ha spontaneamente ridotto l’attività fisica, al differenza del gruppo di controllo.
Questo potrebbe peraltro spiegare quella piccola differenza non significativa nella perdita di peso, ma è ovviamente solo un’ipotesi, ma è comunque interessante perché una riduzione spontanea delle calorie consumate dal movimento involontario è un fenomeno noto, ma spesso sottovalutato, quando si parla di diete dimagranti.
Glicemia e insulina
Per quanto concerne il monitoraggio del controllo glicemico, sono stati impiegati i seguenti parametri:
- glicemia a digiuno,
- test di tolleranza al glucosio,
- HOMA (per la valutazione della resistenza all’insulina)
- e albumina glicata (utilizzata in sostituzione dell’emoglobina glicata a causa di un errore procedurale; rappresenta comunque un indicatore sufficientemente accurato per la valutazione del controllo glicemico a lungo termine).
I risultati non hanno evidenziato differenze statisticamente significative tra i due gruppi in esame.
Ciò suggerisce non solo un’efficacia equiparabile delle due strategie alimentari, ma mette anche in discussione l’effettiva necessità di concentrare l’assunzione di carboidrati nelle ore mattutine, specialmente in un contesto di corretta alimentazione e perdita di peso.
È importante sottolineare che la ricerca è stata condotta, per scelta metodologica, su soggetti obesi con alterazioni glicemiche. Come evidenziato dal Dr. Norton, questa scelta è comunque condivisibile, considerando che molti sostenitori del digiuno intermittente enfatizzano i benefici di questo approccio soprattutto in presenza di resistenza insulinica.
Sebbene non sia possibile determinare le potenziali variazioni del rischio cardiovascolare a lunghissimo termine, è plausibile ipotizzare che un’assunzione di cibo concentrata in una finestra temporale ristretta possa sì risultare in periodi più prolungati di bassa attività insulinica, ma controbilanciati da picchi insulinici più elevati in corrispondenza dei pasti. Presumibilmente, a parità di apporto alimentare, questi fattori tenderebbero a equilibrarsi, risultando in un’area sotto la curva del grafico glicemia-tempo sostanzialmente equivalente tra i due approcci (altro dato emerso dallo studio).
Digiuno intermittente inutile?
Attenzione, al di là dei limiti questo studio e primo fra tutti il ristretto numero di partecipanti, gli autori NON concludono affatto che il digiuno intermittente o il time restricted eating sia inutile, quello che si conclude è che a parità di calorie non offra vantaggi in termini di peso e glicemia.
Di nuovo, quel “a parità di calorie” è tuttavia fondamentale, perché quello che emerge sempre più spesso è che per tante persone l’approccio mentale di concentrare il consumo di cibo in una finestra temporale ristretta è più sostenibile che seguire semplicemente una dieta tradizionale.
Per molte persone limitare l’orario dei pasti, anziché contare ostinatamente le calorie, risulta cioè psicologicamente più gestibile, portando in modo più naturale a una riduzione dell’apporto calorico complessivo, senza la sensazione di privazione tipica delle diete tradizionali.
Negli studi dove le persone sono lasciate libere di mangiare, infatti, emerge chiaramente che chi fa digiuno intermittente tende spontaneamente a ridurre le calorie, e quindi perde peso e grasso.
Il contributo dello studio che abbiamo visto è dimostrare che il dimagrimento non è attribuibile né al digiuno né all’insulina, bensì semplicemente alla riduzione dell’apporto calorico.
Pertanto, se l’approccio del digiuno intermittente si adatta al proprio stile di vita, promuove sazietà e facilita la riduzione calorica, può rappresentare uno strumento efficace per la perdita di peso.
Allo stesso tempo
- non costituisce una soluzione universale
- e non si configura nemmeno come una dieta in senso stretto, poiché non prescrive cosa mangiare, ma solo quando farlo.
Questo aspetto meriterebbe un’analisi approfondita, poiché nel contesto della perdita di peso, il fattore predominante rimane l’aderenza e la sostenibilità a lungo termine del regime alimentare, aspetti fortemente influenzati dalle differenze individuali.
Autore
Dr. Roberto Gindro
laureato in Farmacia, PhD.Laurea in Farmacia con lode, PhD in Scienza delle sostanze bioattive.
Fondatore del sito, si occupa ad oggi della supervisione editoriale e scientifica.