COVID-19 Variante Delta: sintomi, pericoli e risposta del vaccino

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Introduzione

(Se sei alla ricerca di informazioni sulle attuali varianti in circolazioni ti invito a fare riferimento all’articolo dedicato alla variante Omicron)

Nelle ultime settimane ho seguito con particolare apprensione l’andamento della pandemia in Inghilterra, perché attendevo la prevista fine delle restrizioni legate alla gestione sanitaria per potermi auto-convincere che dopo poco sarebbe toccato anche a noi.

È invece notizia di qualche giorno fa che il ritorno alla normalità, programmato per questi giorni, in realtà si farà ancora attendere, almeno un altro mese, nonostante gli ottimi tassi di vaccinazione della popolazione inglese, pari a quasi il 50%.

La ragione di fondo di questo ritardo è la variante Delta (B.1.617.2) che si sta diffondendo soprattutto tra i giovani-adulti non vaccinati, seppure siano stati segnalati anche alcuni casi, comunque per ora solo aneddotici, di anziani vaccinati con due dosi che l’abbiano contratta.

Di fatto purtroppo si è comunque registrato un nuovo aumento dei casi, tanto che sul British Medical Journal qualcuno parla già di terza ondata.

Delta, lettera greca

Cos’è la variante Delta

La variante Delta arriva dall’India, nazione di 1.33 miliardi di persone che è purtroppo devastata una mortalità legata alla pandemia davvero altissima e che ha quindi comprensibilmente indotto il primo ministro inglese alla cautela, soprattutto in considerazione dell’aumento della sua diffusione nel Regno Unito.

È stata isolata per la prima volta durante l’autunno scorso ed alcuni autori ritengono che sia del 40-60% più infettiva rispetto alla cosiddetta variante inglese, Alfa, che era a sua volta già più infettiva del virus originale diffusosi da Wuhan, ed anche il tasso di ospedalizzazione è sensibilmente superiore, almeno il doppio secondo uno studio pubblicato su The Lancet; è chiaro quindi di come si tratti ormai di un virus profondamente diverso nelle caratteristiche rispetto a solo un anno fa.

Semplificando moltissimo, una delle ragioni che lo rendono più infettivo è che si rileva una carica virale superiore nel paziente colpito, banalmente c’è una maggior quantità di virus, e quindi anche starnutendo o tossendo ne viene espulsa una dose più elevata nell’aria; a peggiorare questa capacità di proliferazione si aggiunge l’ipotesi che per infettare un paziente sembra necessaria una minor carica virale iniziale.

I sintomi della variante

Tra i sintomi che vengono associati a questa nuova variante troviamo mal di testa, mal di gola e naso che cola ma, vale la pena ricordarlo sempre, si tratta di osservazioni statistiche e non di regole inamovibili; in altre parole, un paziente COVID che abbia mal di testa non è necessariamente stato colpito da variante Delta e, allo stesso modo, in assenza di questi sintomi non si può escludere comunque questa variante. Restano ovviamente tosse, febbre e perdita di olfatto/gusto i veri sintomi caratteristici dell’infezione, anche se secondo alcuni autori soprattutto quest’ultimo si registra meno frequentemente con la variante Delta.

Nel caso dei giovani adulti si segnalano diversi casi di sintomi blandi, lievi, come una sorta di malessere invernale parainfluenzale, quindi in caso di dubbi meglio sottoporsi al test ed evitare il contatto con altri.

Fortunatamente i bambini sembrano ancora essere esclusi dal rischio; magari positivi al virus, ma con un decorso sostanzialmente asintomatico.

Variante Delta e vaccini

La decisione di ritardare il liberi tutti poggia quindi sulla volontà di aumentare la percentuale di vaccinati, soprattutto in termini di seconda dose per i vaccini che la prevedono, questo perché studi recenti pubblicati ad esempio su BMJ indicano che dopo una prima dose del vaccino AstraZeneca o Pfizer-BioNTech la protezione verso la variante Delta sia circa del 33%, ma che con la seconda dose diventa rispettivamente di 60 e 88%.

Fonti diverse riportano numeri leggermente differenti, ma quello che ci portiamo a casa è che tutto sommato l’efficacia rimane decisamente interessante, soprattutto se consideriamo che la riduzione del rischio di ospedalizzazione è anche superiore, oltre il 90% in entrambi i casi.

Fonti

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Domande e risposte
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